Un progetto. Ultranovecento è un progetto di ricerca. Artistica, culturale, di atteggiamento verso la realtà nelle sue possibilità di rappresentazione. Una ricerca di linguaggi, di significati e di segni che prende le mosse dall'eredità di un secolo, il Novecento, che solo adesso possiamo pensare stia volgendo verso il termine. Quasi mai, infatti, i periodi culturali, le epoche artistiche e le visioni culturali hanno coinciso con le date convenzionali di termine di un secolo o di un millennio. E su questo non ha fatto eccezione il Novecento. Il 2000 non ha chiuso un'epoca, ha solo sancito un passaggio temporale da un punto di vista meramente calendariale. In realtà gli echi delle sperimentazioni dell'ultimo scorcio del XX secolo hanno proseguito per almeno la prima decade del nuovo millennio. Hanno consumato la loro spinta innovativa, hanno mostrato i confini delle possibilità artistiche novecentesche, hanno costituito le avanguardie per gli eserciti del futuro, esplorando nuovi territori semantici ed espressivi. In parallelo hanno ingenerato, e questo almeno a partire dagli anni novanta, un ritorno al “classico contemporaneo„, un'involuzione verso un'arte meno sperimentale, quanto pur sempre moderna, secondo un ciclo fisiologico che periodicamente si ripresenta al termine di un'epoca culturale. Spinte sempre più vigorose ed estreme verso un futuro che pare sempre più vicino di quella che è la sensibilità reale che deve accoglierlo e poi un riassestamento verso placidi e rassicuranti perimetri artistici e infine la sintesi, verso espressioni che partano dalla giusta miscela di questi due momenti apparentemente antitetici, per andare davvero oltre il secolo precedente.
Il Novecento letterario, perché di questo mi è più consono parlare, è stato il secolo del dire nelle sue diversissime declinazioni, della denuncia sociale, dell’esaltazione della parola. Dal d’Annunzio, artefice e cesellatore della parola, fino ai tentativi di risolvere il dilemma del come dire attraverso la celebrazione del significante, del suono anche inarticolato e infantile di Zanzotto o al citazionismo e iperletterarismo Sanguinetiano. O il Pound dei Cantos, storia della civiltà, o della tribù, alla ricerca di linguaggi anche stranieri, di segni ignoti, per poter dire tutto quello che doveva essere detto ed il Pasolini dello sperimentalismo nella dimensione sociale della poesia. L’artista indaffarato nell’urgenza di dare la propria verità. Da questo, con esiti minori, il proliferare della sovraproduzione poetica, la tendenza a riempire tutti i vuoti, senza lasciare grandi margini di manovra al pubblico. Paradossalmente molte delle verbose esperienze poetiche del Novecento nascono dall’afasia, o meglio, dal timore dell’afasia, e la superano dicendo tutto in tutti i modi possibili.
Il semiologo Jurij Lotman affermava che l’unica comunicazione perfetta è quella artificiale, poiché crea una perfetta corrispondenza biunivoca tra messaggio uscente e messaggio entrante. La comunicazione umana, invece, è intrinsecamente imperfetta, in quanto portatrice di margini di indeterminatezza più o meno ampi dovuti a differenze di cultura, di sensibilità, di punto di vista tra mittente e destinatario. Ma questa imperfezione, lungi dall’essere un difetto, come altri linguisti avevano interpretato, ne diventa la grande potenza, perché in questa non perfetta corrispondenza tra intenzione del mittente e percezione del destinatario si genera pensiero dal nulla. Ed in questi margini si muove l’arte. Arte dall’uomo per l’uomo, in un ritorno alla tradizione umanistica che il panorama culturale italiano pare aver accantonato da qualche tempo, accecato dalla “globalizzazione” e massificazione di stampo anglosassone.
Da queste premesse parte Ultranovecento, dal riconoscimento del ruolo attivo del pubblico. L’arte, quindi, non come mera portatrice di conoscenza, ma come generatrice di pensiero, strumento di ricerca di consapevolezza, come stimolo sociale alla ricerca di una verità. A questo punto, quindi, l’opera smette di essere monologo e diventa dialogo. Dialogo con il proprio pubblico, altra metà che la completa, attraverso l’interpretazione esterna supportata dalla sensibilità e dalla coscienza. Arte che costringe il fruitore a pensare, a compiere un forte atto di autodeterminazione. Non relativismo, ma profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad accedere a superiori stati dell’essere attraverso un cammino di conoscenza, comprensione e consapevolezza.
In queste grandi direttrici, allora, si impone la “sospensione” come linea comune degli artisti di Ultranovecento. La celebrazione del vuoto lasciato da riempire. Un vuoto non nichilistico, si badi bene, ma traboccante di pensiero in potenza. Un vuoto segnato dai larghi margini di indeterminatezza, dai suggerimenti, dalle allusioni. L’ungarettiano segreto della poesia, che deve essere svelato da altri. E in effetti proprio Ungaretti sembra essere uno dei pochi esempi novecenteschi di parola non detta, di segno non inciso nella plurisemanticità del verso scarno, dove gli spazi bianchi si caricano di significati al pari delle parole. Forse un ritorno a Dante, dopo secoli di Petrarchismo. L’artista a questo punto non è più il detentore della verità, l’eletto che riesce, lui solo, ad interpretare il mondo. Ma, sceso dal suo piedistallo e rientrato in mezzo alla gente, pone al servizio della società una maggior sensibilità ed una superiore attitudine alla curiosità, per porre domande, insinuare il germe del pensiero che può condurre verso una reale libertà dell’individuo affinché non venga imbrigliato nelle massificanti convenzioni piccolo-borghesi. È questo a mio avviso, il vero ruolo dell’artista che vuole andare oltre il novecento. Guida che si pone in discussione in un continuo confronto con il mondo. Che non impone la sua visione, ma propone il suo punto di vista e si arricchisce continuamente nel dialogo. Un artista di pensiero e azione, non di storie.
Frutto dell'incontro tra arte visiva e poesia, Ultranovecento vuole mostrare la nuova generazione di artisti che ha intrapreso un percorso. Ognuno a modo suo, secondo la propria sensibilità e formazione, gli artisti e i poeti di Ultranovecento pongono la sfida a un secolo con parole diverse, tecniche diverse, alfabeti diversi. Da Maggio 2010, sono state realizzate esposizioni a San Giovanni in Persiceto, Pordenone, Faenza e Padova. Nel 2011 verranno toccate altre città italiane. Ma Ultranovecento è soprattutto un work in progress, un progetto che diventa gruppo attorno alla ricerca e al dialogo interdisciplinare con l’obiettivo ultimo di progressione verso nuove espressioni di significati sospesi. Un punto di partenza verso strade diverse che portino oltre il secolo breve.
Il Novecento letterario, perché di questo mi è più consono parlare, è stato il secolo del dire nelle sue diversissime declinazioni, della denuncia sociale, dell’esaltazione della parola. Dal d’Annunzio, artefice e cesellatore della parola, fino ai tentativi di risolvere il dilemma del come dire attraverso la celebrazione del significante, del suono anche inarticolato e infantile di Zanzotto o al citazionismo e iperletterarismo Sanguinetiano. O il Pound dei Cantos, storia della civiltà, o della tribù, alla ricerca di linguaggi anche stranieri, di segni ignoti, per poter dire tutto quello che doveva essere detto ed il Pasolini dello sperimentalismo nella dimensione sociale della poesia. L’artista indaffarato nell’urgenza di dare la propria verità. Da questo, con esiti minori, il proliferare della sovraproduzione poetica, la tendenza a riempire tutti i vuoti, senza lasciare grandi margini di manovra al pubblico. Paradossalmente molte delle verbose esperienze poetiche del Novecento nascono dall’afasia, o meglio, dal timore dell’afasia, e la superano dicendo tutto in tutti i modi possibili.
Il semiologo Jurij Lotman affermava che l’unica comunicazione perfetta è quella artificiale, poiché crea una perfetta corrispondenza biunivoca tra messaggio uscente e messaggio entrante. La comunicazione umana, invece, è intrinsecamente imperfetta, in quanto portatrice di margini di indeterminatezza più o meno ampi dovuti a differenze di cultura, di sensibilità, di punto di vista tra mittente e destinatario. Ma questa imperfezione, lungi dall’essere un difetto, come altri linguisti avevano interpretato, ne diventa la grande potenza, perché in questa non perfetta corrispondenza tra intenzione del mittente e percezione del destinatario si genera pensiero dal nulla. Ed in questi margini si muove l’arte. Arte dall’uomo per l’uomo, in un ritorno alla tradizione umanistica che il panorama culturale italiano pare aver accantonato da qualche tempo, accecato dalla “globalizzazione” e massificazione di stampo anglosassone.
Da queste premesse parte Ultranovecento, dal riconoscimento del ruolo attivo del pubblico. L’arte, quindi, non come mera portatrice di conoscenza, ma come generatrice di pensiero, strumento di ricerca di consapevolezza, come stimolo sociale alla ricerca di una verità. A questo punto, quindi, l’opera smette di essere monologo e diventa dialogo. Dialogo con il proprio pubblico, altra metà che la completa, attraverso l’interpretazione esterna supportata dalla sensibilità e dalla coscienza. Arte che costringe il fruitore a pensare, a compiere un forte atto di autodeterminazione. Non relativismo, ma profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad accedere a superiori stati dell’essere attraverso un cammino di conoscenza, comprensione e consapevolezza.
In queste grandi direttrici, allora, si impone la “sospensione” come linea comune degli artisti di Ultranovecento. La celebrazione del vuoto lasciato da riempire. Un vuoto non nichilistico, si badi bene, ma traboccante di pensiero in potenza. Un vuoto segnato dai larghi margini di indeterminatezza, dai suggerimenti, dalle allusioni. L’ungarettiano segreto della poesia, che deve essere svelato da altri. E in effetti proprio Ungaretti sembra essere uno dei pochi esempi novecenteschi di parola non detta, di segno non inciso nella plurisemanticità del verso scarno, dove gli spazi bianchi si caricano di significati al pari delle parole. Forse un ritorno a Dante, dopo secoli di Petrarchismo. L’artista a questo punto non è più il detentore della verità, l’eletto che riesce, lui solo, ad interpretare il mondo. Ma, sceso dal suo piedistallo e rientrato in mezzo alla gente, pone al servizio della società una maggior sensibilità ed una superiore attitudine alla curiosità, per porre domande, insinuare il germe del pensiero che può condurre verso una reale libertà dell’individuo affinché non venga imbrigliato nelle massificanti convenzioni piccolo-borghesi. È questo a mio avviso, il vero ruolo dell’artista che vuole andare oltre il novecento. Guida che si pone in discussione in un continuo confronto con il mondo. Che non impone la sua visione, ma propone il suo punto di vista e si arricchisce continuamente nel dialogo. Un artista di pensiero e azione, non di storie.
Frutto dell'incontro tra arte visiva e poesia, Ultranovecento vuole mostrare la nuova generazione di artisti che ha intrapreso un percorso. Ognuno a modo suo, secondo la propria sensibilità e formazione, gli artisti e i poeti di Ultranovecento pongono la sfida a un secolo con parole diverse, tecniche diverse, alfabeti diversi. Da Maggio 2010, sono state realizzate esposizioni a San Giovanni in Persiceto, Pordenone, Faenza e Padova. Nel 2011 verranno toccate altre città italiane. Ma Ultranovecento è soprattutto un work in progress, un progetto che diventa gruppo attorno alla ricerca e al dialogo interdisciplinare con l’obiettivo ultimo di progressione verso nuove espressioni di significati sospesi. Un punto di partenza verso strade diverse che portino oltre il secolo breve.
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