sabato 14 maggio 2011

Catalogo/Manifesto

Ultranovecento è un progetto che nasce dagli artisti con lo scopo di riportare il dialogo tra forme espressive diverse, nella convinzione che da questo scambio possano scaturire stimoli nuovi e più vitali. Perché la conoscenza, l'esperienza, l'ascolto di voci diverse attraverso linguaggi diversi conduce ad un passo ulteriore

e più profondo nel percorso di ricerca di ciascuno degli artisti visivi e dei poeti di Ultranovecento, che hanno scelto di non accontentarsi di continuare a replicare sterilmente sé stessi o il passato, ma che cercano sempre avidamente nuovi significati e nuove forme di realizzazione della propria arte.

E questo catalogo/manifesto vuole essere la fotografia di quello che Ultranovecento è arrivato ad essere oggi, perché possa essere un punto di partenza ulteriore (non il primo, né l'ultimo) verso quello che Ultranovecento diventerà domani. Non un documento, quindi, dell'attività fatta finora, tantomeno una carrellata esaustiva dei lavori degli artisti e dei poeti di Ultranovecento.
Ma appunto un catalogo nella forma di un manifesto. Una dichiarazione programmatica attraverso le opere. La testimonianza di un punto di passaggio nel percorso degli artisti. Un lavoro corale di ricerca, di narrazione e di proposta.

Il vero significato di questo manifesto/catalogo, perciò, non è in quello che rappresenta staticamente, ma nella dimensione dinamica che acquista in relazione ai diversi percorsi artistici di cui reca testimonianza.

Opere (in senso orario dall'alto a sinistra):

Daniela Barulli
Marco Baj
Jacopo Casadei
Martino Neri


Poesie

L'altro giorno è venuto da me il Tempo. | Abbiamo fatto quattro chiacchiere, | bevuto una roba, | giocato a carte, | fumato il narghilè. | Ehi, aspetta, | mi ha detto | ho due cose da fare. | Io gli ho detto, | prendi le chiavi | la strada la conosci, | non è cambiata. |È sceso giù, | infondo, | infondo. | Quando è tornato qui | mi ha ridato le chiavi, | mi ha dato i soldi | che sarebbero bastati | per un bel po' di giorni. | Per finire: mi ha raccomandato | di innaffiarlo. Di annaffiarlo | la mattina presto: | se non torno per la notte | annaffialo | la mattina presto. | E io lo annaffio | la mattina presto | quelle volte | che il Tempo non rientra. | Quelle volte che, nel vicolo, | non vedo gettata | la sua lunga ombra. | Il metronomo bianco del Tempo | va annaffiato la mattina presto. | La vernice così si squama; | il ciliegio | si gonfia | ed esplode. | I tarli lo bucherellano nei fianchi, | l'ago si è ammosciato: | l'obelisco è abbattuto. | Rimane su un vassoio di plastica | in una vasca da bagno | una vasca | che ha le zampe della Bestia, | zampe che | ogni tanto sbattono | sul pavimento | e il fracasso arriva | fin quassù. | Tanto, che a volte, | sveglia gli altri miei amatissimi ospiti. | In quella stanza | che faccio pagare poco | filtra | dalle feritore che danno sulla strada | una luce sufficiente | perché sia sempre rigoglioso | il giardino | delle spore. | Il salnitro schiuma | dalla carta da parati. | Sul pavimento c'è del liquido | e cose nere vi si muovono. | Dalla schiuma del salnitro | escono delle teste: | teste di vecchi sdentati | con la barba gialla | giovani con l'apparecchio | e i primi | peli in faccia, | donne con il trucco verde | attorno agli occhi. | Bambine | che sembrano bambini. | Mi sentono | quando sto per aprire la porta | e così si fanno tutti zitti. | Io entro in quella stanza | la stanza che faccio pagare poco. | Li saluto | con cordialità. | Mentre innaffio | il metronomo bianco | sul vassoio di plastica | provo | a fare due chiacchiere con loro ma | raramente | hanno voglia di parlare. | Nel frattempo il traffico, sopra di noi, | non conosce interruzioni | non conosce pietà. | Da queste feritoie vedo | la vecchia fabbrica | la vecchia fabbrica | che non ce l'ha fatta. | E la piccola stazione | vicino alla fabbrica | che ha subito | la stessa sorte: | fronde gialle: | acacie e noccioli | come spazzole da scarpe. | Il cielo, da queste parti, | ha il colore spento | del cartone bruciato. | A volte mi sento solo. | E vado a bussare alla porta | della stanza che faccio pagare poco | busso alla porta | del Tempo. | Lo sento ridere dietro alla porta | anche piangere. | Ma a volte parla, | sembra | che parli da solo | dietro a quella porta | ma non è così. | Mi sta parlando. | Parla e parla, | e puoi capirlo. | Basta | che gli presti | la dovuta attenzione. | Parla una lingua lenta | che ogni uomo, | con un po' di allenamento | capisce | a modo suo. | Come per i bambini.

Francesco Terzago



Anche di notte l’Enrico lavüra,
come i cinesi o i giargianès
negli anni Sessanta: l’imprenditùr
lo chiamano ma per arrivare a fine mese
insegna lingue morte senza profitto.
L’Amalia assapora una caramella
alla liquirizia sentendosi bambina
quando tutti stavano bene
e l’Andrea – forse un po’ di freddo
o una mala bevuta – vomita
in qualche angolo e senza di lei
sarebbe un barbùn.
Era l’antico mattatoio – orgoglio
di generazioni di beccai, ora cimitero
di amianto, taniche
e una smagliante Casa dei Giovani
durata una conferenza stampa.
Fiulin – in testa Teresa, come fuoriuscito
da una sezione fumosa anni Cinquanta
ma non ci sono rivoluzioni, scioperi,
Guerra Fredda, destra, sinistra
e in auto un libro di Berlinguer…
uno scherzo… solo uno scherzo.
Campi di fiori gialli nel fresco del viaggio
da far l’amore fino a tardi
mentre le strade mutano e invecchiano discreti.

***

La ciamavan Toro Seduto
e stava lì vicino alla Píassa
– quando ancora gh’eran i burdell –
e già malata cantava e urlava per strada;
dopo quei nomi… l’avvocato… l’ingegnere…
il dottore… l’han trovata strangolata
in una roggia.
Dal Borgo si vedono le Alpi,
da dove sono scese le truppe Cartaginesi,
Franche, Spagnole, Francesi, Tedesche;
il Gigi in quella casa troppo grande
lasciata andare dal tempo, con la madre
anziana mangia solo Nutella, salame,
uova fino a scoppiare di colesterolo.
L’Enrico lavora anche nelle notti di festa,
fuori clacson pallonari, fuochi d’artificio
e il Maurone con il suo biciclettone
all’alba dalla radiolina
«Cerco amore ad ogni costoo,
perché adesso ne ho bisognoo…»

***

L’Enrico pochi ghèll in saccoccia,
anche oggi lavora fino a notte fonda
e in testa frasi da professore di paese:
“Sarete la classe dirigente di domani!”
Primo ora che la fiolètta l’è andà
solo sul divano fumerà un torcione
guardando vecchi film e fuori vista Metropoli
di voci sui marciapiedi.
Il mare ridà antichi tesori greci e romani
affondati in qualche tempesta
e Carletto operaio di tempi postmoderni
cronometra ogni gesto prima di essere
delocalizzato dall’altra parte del sole.
L’Andrea dopo un giorno a scrivere storie
in poche righe ha voglia di parlare,
di ascoltare dal canale il canto delle rane
come fossero altri tempi.

Luca Ariano



Confini

E’ il grande fiume che possiede il sapere che il respiro trattiene.
La stranezza abita il buio, tutto è accaduto altrove, la tenebra, ciò che è fondato su essa.
Nel vortice l’involucro si lascia attraversare.
Gelida l’aria fuori.
Guardare a ritroso nella storia e notare le falle di un’epoca.
Buchi neri nel secolo alle spalle, tanto si è creato e distrutto senza portarne il vissuto.
Ma la storia non perde nulla, anche se posseduta da una virtù che pur l’uomo dimentica.
La capacità umana del non sapere fare tesoro di ciò che accade, è disarmante.
L’uomo è ombra di se stesso.
Sulle mura autunnali, la quercia tocca vette nel cielo, che saporano di caccia.
Buoi decomposti, angeli che grondano sudore freddo.
La vita dell’ombra regge il baratro, occhi chiusi, scoperti nella cognizione del tempo… di quello abbandonato al non sapere di essere.
Manifesto silenzio nel miele a colazione, mancato risveglio nel buongiorno, selvaggia la cucina, dove il tavolo odora sempre di carne.
Annusando l’aria, le narici deformi oltraggiano la bellezza, ma solo il fiutare insegna, nell’odore di sangue prossimo.
E’ così che la donna manifesta la creatura che dentro morde.
Il confine, una palafitta sulla terra che ricopre la pianura.
Torniamo a casa per abitare le stanze della serpe, per lusingare pietanze nell’ultimo banchetto, in quella tana che nasconde il raggio.
Torniamo a casa, perché l’arma va sepolta, perché i morti reclamano il sonno, rivendicando un posto per non essere inutili abitatori del pianeta.

***

Torno a casa perché sorridi. Torno a casa sul tuo petto.
L’uragano parla, avvisaglie d’ali tra il buio intorno e il giorno dei rumori in strada.
Non resta che seguire l’istinto, la scia del nostro alito.
La bestia paga il reato mai confessato e mai il dovuto rimborso.
Anche un simulacro tenta il volo, sperduto tra il nulla e l’addio…
come falena beve le lacrime dei tanti animali morti, che danno viscere a quell’orizzonte aperto.
Domani, quell’acqua sui fianchi ne sarà unica testimone.
Non si smette mai di cercare la parola che semina nelle notti di luna.
Oracolo che dice entro la schiena dalla forma arcana.
Ombrati sul crepuscolo, sagome che portano in grembo pioppi e camion.
Ore che fuggono, tra l’essere gravido e il mettere alla luce.
L’evidente nudità della foglia di vite copre i salici piangenti, dove le mani s'incontrano
L’aureola sta in quei confini, che noi, gente di zolle piatte, assaporiamo.
Di pane e di vino è l’erba imbandita.
Quando l’uomo scorda, il sapore lo ritroviamo nel lavoro nei campi.
Hai le dita avvizzite, mi racconti che dall’argine hai visto i sassi, dove il pesce s’intana
Ti disegno sulla tovaglia le ossa femorali, che nel letto del fiume ho pescato.
Cammino scalza nelle anse rubate alla valle. Parlo, perché questa è la nostra casa
La stagione di mezzo non conosce steccati. Le alborelle migrano, le carpe brillano di squame, quali becchi a scuotere il mondo e le spalle.
Noi dei vecchi serbiamo memoria, senza sapere come i figli la useranno.
Le campane suonano a tutte le ore, e loro ostinati a cercare quella esatta. Ancora terra, fiume, grano, canne, mais… il viaggiare sempre sul bordo rivendica il diritto di esistere e di chiamarsi.
Larghe silenti, già musica tra i capelli di poderi arati.
I palmi callosi di mio padre non processano questo popolo senza tempo.
Nulla di nuovo sotto il sole, anch’egli assolto per mancanza di prove.
La consapevolezza aiuta, insegna, accoglie, per una civiltà giunta a novembre.
Mai scendere a compromessi coi propri valori… questo forse il termine,
o forse il risveglio.

Paola Castagna



Il mercante di Smirne
Non chiedere neppure un salmo
se non hai altro
che il tempo del tuo pensiero infedele
non un canto
(un canto)
ma interesse e profitto

***

Quadragesimo anno
Nihil inde sperantes
pretese un duplice senso
per saldare il conto morale
Il tempo è denaro
generò mostri
nei ghetti romani

***

Il vigesimo anno
al banchetto di Chrono
sedettero infiniti fedeli

***

Har Ha-Karmel
Le pendici del monte Carmelo
ospitano divini diversi
Infedeli pregano
il nuovo vitello d’argento
che mangia sé stesso
Di titoli di stato
brulicano
le grotte dei profeti

***


Il terzo tempio

Nella valle risuonava il richiamo
alla preghiera
la mattina dell’undici di settembre
Alla salita del tempio
indugiavano i fedeli
a raccogliere denaro

Simone Zanin

Nessun commento:

Posta un commento